“Roba
da giuristi”: la CEDU, l’Italia et alia…
Ogni attimo fuggente potrebbe
essere quello giusto, anche per “la sentenza del momento”. Mentre la pronuncia
della Cassazione, ancora fresca di diritto, ha discusso il canone
ermeneutico dell’art. 391-quater c.p.c. (s.m.i. del d.lgs. 10 ottobre 2022,
n. 150, c.d. Riforma Cartabia), parrebbe che, sul versante internazionale, i
media abbiano preferito l’adozione di un religioso silenzio sulla decisione
della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha interessato l’Ucraina. E noi, cari
egregi lettori, figli delle armate bianche (un po’ come le mosche) vi
proponiamo una riflessione diretta e coinvolgente, quella di un tempo lontano,
un po’ vintage, con il colorito montaggio analogico della Corazzata
Potëmkin ad effetti speciali che in-formano l’opinione quando la realtà
diviene troppo anodina (senza nulla togliere all’eleganza del bianco e nero) ed
il grigiore del conformismo suole spesso lambirci a cannonate. Così, parafrasando
il tema del maestro Ejzenštejn in modo grottesco, ci riserviamo l’opportunità
di rimanere solo sconvolti dal dettaglio degli stivali giuridici (e, per
questo motivo – PQM - “andiamo in estasi”) quando l’opinione
dei Giudici di Strasburgo, anche una sola dissenziente, si esprima su talune
questioni che ci sentiamo di condividere con il nostro pubblico.
A proposito di corazzate,
procediamo con ordine. Vi raccontiamo, fin da subito, che l’Ucraina, da diversi
anni nel mirino dell’operazione speciale militare condotta da parte della
Federazione Russa (inizio 20 febbraio 2022), è stata condannata dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo per violazione degli articoli 2 [diritto alla
vita] ed 8 [diritto alla vita privata e familiare] della Convenzione. Or bene,
il caso Vyacheslavova et alia c. Ucraina ha raggiunto il
capolinea alla Corte di Strasburgo, una lunga vicenda in cui è emersa la
responsabilità palese dello Stato per l’aver omesso adeguate misure di
sicurezza durante i drammatici fatti di Odessa nel mese di maggio del 2014.
In prospettiva, oltre alla “mancata tutela dell’incolumità fisica dei
manifestanti” – nonostante, si dica, fosse previsto un piano di sicurezza ad
hoc, ndr. – la Corte ha rilevato alcuni dubbi nella fase delle indagini
processuali condotte da parte della magistratura di Kiev. Nondimeno, in
connessione con l’articolo 8 della Convenzione, la Signora Vyacheslavova
è stata persino costretta a non vedersi restituire la salma del padre defunto,
trattenuta parte delle autorità locali ben oltre il limite temporale
ragionevole previsto per le analisi obiettive, impedendosi così di celebrare i
riti per una dignitosa sepoltura. Certamente, questa sentenza costituisce un fulmine
a ciel sereno che si staglia in un clima politico (internazionale) già gravato
dalle diverse tensioni in corso. E non parliamo dei dazi. Anzi, ne riparleremo
a tempo debito. Rimane la plausibilità, non remota, che la pronuncia possa riaprire
un’ulteriore riflessione in linea con alcuni princìpi non negoziabili
che potrebbero interessare l’articolazione di futuri passi integrativi da
compiersi in capo all’Unione europea. Scelte che, a prescindere dalla vicenda processuale,
che ha qui ed ora coinvolto l’Ucraina, ripropone già anche alcuni motivi
accessori che eviscerano la causalità dinamica dell’attuale conflitto
russo-ucraino.
Bisogna rammentare che la
CEDU permanga ancora un sistema giuridico “autonomo” rispetto al diritto
unionale (diremmo, “quer pasticciaccio brutto de l’articolo 344 TFUE…”).
Essa è direttamente collegata al livello istituzionale del Consiglio d’Europa, un’organizzazione
internazionale con mandato di tutela dei diritti umani, con potere-dovere
di sorveglianza sulle decisioni adottate da parte della Corte nei confronti dei
Paesi parte della Convenzione (e relativi Protocolli addizionali). La CEDU,
firmata a Roma nel 1950, è stata poi ratificata dall'Italia con legge 4
agosto 1955 n. 848, secondo le modalità previste dal nostro ordinamento
interno. L’indipendenza in senso tecnico giuridico del sistema CEDU dal diritto
comunitario (oggi, dell’UE) rimane tuttora oggetto di grande profilo dibattimentale
in seno all’Unione, in modo particolare per ciò che concerne la via adesiva sancita
dalla lettera dell’art. 6 § 2 TUE.
In ogni caso, “la
verità è come un leone: si difende da sola”, come affermava Sant’Agostino
d’Ippona: per quanto possiamo sforzarci d’interrarla, prima o poi emerge con
forza dirompente. Si pensi alle innumerevoli menzogne disseminate qua e là, come
gli stessi rifiuti a nocumento della salute e dignità dei cittadini della Campania
Felix. Detto caso, questa volta, è più noto rispetto al precedente: trattasi
del recente arrêt Cannavacciuolo et alia
[https://hudoc.echr.coe.int], in cui l’Italia è stata travolta dalla
pronuncia del Giudice di Strasburgo. Si è raggiunto un lieto fine, si fa per
dire, intriso un sorriso decisamente un po’ amaro, dato che nella massima della
Corte, in lingua inglese, si legge: “Systematic, decade-long, widespread and
large-scale pollution phenomenon caused by illegal dumping, burying and/or
uncontrolled abandonment of hazardous, special and urban waste, often carried
out by criminal organised groups, in parts of the Campania region (ossia, “la Terra
dei Fuochi”). Nient’altro da dichiarare o nulla in nostro potere da
aggiungere: la Corte europea dei diritti dell’uomo, previo canonico esaurimento
dei ricorsi interni in codesta vicenda, ha pronunciato il proprio verdetto
contro il nostro Paese, accordando poi un’equa soddisfazione a favore dei
ricorrenti. Dal titolo esecutivo ne deriva l’obbligo di dare immediata e rapida
esecuzione ai ristori per i danni ambientali derivanti dalla mala gestione e
smaltimento illecito di circa un milione di tonnellate di rifiuti (pericolosi e
non), ovvero per il gravoso danno occorso alla salute umana. La Corte ha ivi
inoltre ravvisato una mancata trasparenza e tempestività da parte delle autorità
nazionali: pertanto, l’Italia dovrà adottare una strategia efficiente che miri
a risolvere la gestione dei rifiuti in modo sistematico, adottando, per i
prossimi due anni, anche congrui mezzi di informativa al pubblico.
Insomma, dura lex, sed
lex: ai posteri, sempre, l’ardua sentenza di Strasburgo.
Diego De Blasi
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