Bellezza sacra: la calligrafia araba e l’estetica divina nell’Islam

 

Bellezza sacra: la calligrafia araba e l’estetica divina nell’Islam

 Di Danila Monteleone


“Dio è bello e ama la bellezza”, recita un hadith ampiamente citato nella cultura islamica. In nessun ambito questa affermazione trova espressione più piena che nell’arte della calligrafia araba. In una civiltà dove la rappresentazione figurativa è spesso evitata per rispetto del sacro, la bellezza si incarna nella parola: non soltanto nel suo significato, ma nella sua forma, nel gesto che la traccia, nella linea che la scolpisce nello spazio.

La scrittura, nel mondo islamico, è molto più di uno strumento per comunicare: è un atto di devozione, una disciplina spirituale, una via per rendere visibile il divino. Nata come veicolo del messaggio coranico, la calligrafia si è presto trasformata in una delle più alte forme d’arte dell’Islam, capace di unire rigore geometrico e slancio mistico, fedeltà testuale e libertà creativa. Scrivere bene non è solo una questione estetica: è un dovere religioso, un modo per onorare la Parola rivelata. Le lettere diventano allora architetture sacre, ornamenti infiniti, arabeschi che si moltiplicano con ritmo musicale. La bellezza non è accessoria: è essenza. E in questo intreccio tra segno e significato, tra disciplina e ispirazione, la calligrafia araba riflette il cuore pulsante dell’estetica islamica — una bellezza che è sacra perché orientata verso Dio.

La calligrafia come arte sacra Fin dalle origini dell’Islam, la calligrafia è stata considerata la forma artistica per eccellenza. Le lettere diventano architettura, ornamento, musica visiva. Le forme si stilizzano, si intrecciano, si moltiplicano in motivi geometrici che sembrano non finire mai. Tra gli stili più antichi e solenni troviamo il kufico[1], caratterizzato da linee rette, angoli netti e una bellezza austera. È il preferito per le iscrizioni monumentali, i decori ceramici, i tessuti di lusso. Seguono altri stili come il naskh, più rotondo e leggibile, usato nei manoscritti; il thuluth, più elaborato e monumentale; e il nastaliq, nato in area persiana, celebre per la sua grazia fluente. 



Ma ciò che rende la calligrafia islamica davvero unica è la sua capacità di adattarsi a qualsiasi supporto: la troviamo scolpita nella pietra, cesellata nel metallo, dipinta sulle pareti delle moschee, intarsiata nel legno, e soprattutto incisa sulla ceramica e tessuta nei tessuti più preziosi.

Bacini ceramici e scrittura decorativa Uno degli esempi più affascinanti di calligrafia applicata all’oggetto sono i bacini ceramici islamici, giunti nel bacino del Mediterraneo tra XI e XIII secolo. Molti furono importati dalla Siria, dall’Iran e dall’Egitto, e murati nelle facciate delle chiese romaniche in Italia centrale – si possono ammirare ancora oggi a Pisa, Spoleto, Ancona, Perugia.

Spesso decorati in lustro metallico o in smalto su fondo bianco, questi piatti recano iscrizioni in stile kufico, che trasmettono: benedizioni (al-baraka), parole di fortuna (al-yumn), nomi di artigiani o committenti, e a volte intere frasi tratte da testi sapienziali, normalmente Corano e hadith[2]. La scrittura qui non è solo parola scritta: è motivo ornamentale, ritmo visivo, segno grafico che si sublima nell’arte.

Quando la scrittura finge di essere tale: lo pseudo-epigrafico Ma non sempre le lettere sono vere parole. In molti manufatti, soprattutto nei tessuti e negli oggetti destinati all’esportazione, compare un fenomeno curioso: la pseudo-calligrafia, o pseudo-epigrafico. Si tratta di decorazioni che imitano la scrittura araba, ma che non formano parole reali. Sembrano lettere, ma non si leggono.

Questa pratica si diffonde soprattutto tra il X e il XV secolo, e trova spazio nei:

·        Tessuti islamici di lusso, come i tiraz[3];

·        Stoffe destinate al mercato europeo, dove la scrittura araba era percepita come esotica e affascinante;

·        Oggetti artistici occidentali, dove motivi "orientali" venivano copiati per evocare sacralità o prestigio.

Un esempio emblematico? I tessuti con pseudo-kufico usati come sudari o paramenti liturgici in Europa: pur non sapendone leggere il contenuto, le comunità cristiane medievali li associavano a potere e mistero, e li utilizzavano per rivestire reliquie, statue sacre o per confezionare abiti liturgici. Anche nella pittura occidentale, soprattutto gotica e rinascimentale, troviamo abiti della Vergine o di santi decorati con fasce scritte in finto arabo: un modo per rendere visibile una forma di sacralità esotica, estranea ma potente.

Calligrafia vera e calligrafia simbolica La calligrafia autentica e quella pseudo-epigrafica rispondono entrambe a un bisogno profondo: rendere visibile il sacro attraverso la forma della parola. Che sia comprensibile o no, la scrittura diventa segno di sapere, di potere, di benedizione. Persino quando non parla, comunica. Nel mondo islamico, la scrittura è luogo della bellezza, custode della memoria, ponte tra l’umano e il divino. E il suo eco visivo ha attraversato mari e culture, insinuandosi nella trama dei tessuti, nelle maioliche delle chiese, nelle aureole dei santi. Sempre fedele a sé stessa, eppure sempre trasformata.

 



[1]Tale stile prende il nome da Kufa in Iraq, dove si è originato

[2]Hadith: detti e fatti del Profeta

[3]Il termine tiraz designava originariamente le manifatture statali in cui si producevano tessuti decorati con iscrizioni, solitamente con il nome del sovrano o frasi religiose. Per estensione, venne poi a indicare anche i tessuti stessi, che erano simboli di prestigio e spesso doni ufficiali. Particolarmente fiorente era quello di Palermo

 

 

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